**La parola tra corpo, istituzione e scarto: un dialogo con Bartleby**


Nascere significa essere gettati in un esterno già formato, dove il vivente non trova mai purezza o autosufficienza, ma immediata immersione in corpi, gesti, odori e soprattutto parole. La parola è una forza esterna che si innesta nel corpo umano, vibrazione che plasma e lega, creando vincoli tra chi parla e chi ascolta. Essa vive in un regime bicondizionale e bicondizionante: esiste solo nella relazione reciproca e, nel prodursi, ridisegna simultaneamente entrambi i poli della comunicazione.


Su questa fragilità potente si innesta la scrittura, che non nasce come semplice trascrizione dell’oralità, ma come memoria contabile e politica. Se la voce apre tensioni nell’istante, la scrittura stabilizza e istituzionalizza, trasformando conflitti in regole e differendo nel tempo ciò che altrimenti si dissolverebbe. Ogni società vive in questa duplicità: da un lato l’oralità incarnata, vibratoria, legata al respiro; dall’altro la scrittura come traccia durevole, memoria e governo. L’una rischia di svanire, l’altra di irrigidirsi: la vita comune si gioca nel loro intreccio.


È in questo campo della parola — tra corpo e traccia — che si inscrive la vicenda di Bartleby lo scrivano. Melville colloca la sua storia non nell’eccezionalità di un individuo enigmatico, ma nella normalità di un lawyer di Wall Street, narratore compiaciuto e pignolo, che parla al presente di un passato registrato con minuzia deformante. Non è Bartleby a essere mostruoso, ma lo sguardo angusto del lawyer, chiuso tra muri e cavedi, incapace di vedere oltre il proprio orizzonte ridotto.


La “preferenza negativa” — quel “preferirei di no” che risuona nel racconto — non si offre a interpretazioni psicologiche né morali: spezza il sistema della parola funzionale e contrattuale in cui il narratore vive. Il lawyer, uomo di carte, titoli e definizioni, si affanna a incasellare Bartleby, ma fallisce: sposta ufficio, cambia cornice, invoca carità, ricorre a spiegazioni sociali o spirituali, ma nulla contiene la presenza opaca e irriducibile dello scrivano.


Qui Bartleby diventa, per usare una metafora godeliana, la proposizione indecidibile all’interno del sistema linguistico-relazionale del lawyer. Come nel teorema di incompletezza, ogni linguaggio coerente incontra un punto cieco che non può spiegare dall’interno: Bartleby è quella verità indecidibile che mette a nudo i limiti della parola istituzionale. Non rifiuta apertamente, non afferma, non argomenta: si limita a sospendere il gioco, a sottrarsi senza ribellione. Evento puro, letterale, che implode dall’interno la pretesa di completezza del linguaggio funzionale.


In questo senso, Melville costruisce uno specchio ironico: il lettore di Wall Street del 1853, immerso negli stessi muri e giornali del lawyer, cade nello stesso inganno se prende Bartleby come “anomalia”. Il vero oggetto narrativo è il sistema chiuso e pignolo della voce narrante, con la sua miopia etica e linguistica. Bartleby è il limite che lo smaschera.


Così, il racconto può essere letto come incarnazione narrativa del doppio regime della parola. L’oralità appare nel gesto incarnato del “preferirei di no”, formula minima e performativa che spezza il circuito. La scrittura si mostra nella registrazione ossessiva del lawyer, che conserva e codifica senza mai capire. Nell’intersezione tra corpo e traccia, tra immediatezza e istituzione, Bartleby rivela la faglia: nessun regime della parola, orale o scritta, può pretendere di essere completo.


Il suo silenzio operoso — che non nega né afferma, ma preferisce di no — resta come un orologio umano incontrato per caso: presenza che orienta senza spiegarsi, che ci dice l’ora e subito scompare. Non è la storia di uno scrivano soltanto, ma di uno scrivano e di un lawyer, di un incontro impossibile tra parola incarnata e parola istituzionale, tra corpo e traccia. È qui che Melville, con ironia feroce, mostra la verità: il linguaggio stesso porta sempre dentro di sé un punto cieco, una resistenza che non si lascia dire.

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(mr)

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