La scrittura come contabilità del conflitto
L’origine della scrittura non va compresa primariamente come tentativo di trascrivere la parola, bensì come tecnica di registrazione e calcolo. Le più antiche testimonianze mesopotamiche mostrano un uso della scrittura per la gestione di merci, tributi e scambi, prima ancora che per la narrazione o la poesia. Essa nasce come strumento di memoria esterna, necessario per preservare informazioni che non possono più essere affidate unicamente alla memoria umana. In questa prospettiva, la scrittura assume un carattere politico: riduce il rischio di conflitto trasformando la forza in regola. La parola orale, bicondizionale e immersa in relazioni reciproche, espone a contraddizione continua; la scrittura, invece, stabilizza, fissa e converte il dire in traccia verificabile.
La scrittura nasce dunque come tecnica contabile, evolvendo in tecnica politica e istituzionale. Jack Goody ha sottolineato come il passaggio dall’oralità primaria alla scrittura consenta nuove forme di organizzazione sociale, rendendo verificabili promesse, obblighi e proprietà. Walter J. Ong ha mostrato che le culture orali tendono a essere ridondanti, conflittuali e performative, mentre la scrittura inaugura la possibilità di pensiero analitico, capace di separare, classificare e confrontare. Derrida, rifiutando la subordinazione tradizionale della scrittura alla parola, riconosce che l’atto di scrivere non è mera trascrizione, ma costituzione del senso, differimento della presenza e sospensione della violenza immediata dell’oralità.
Il tempo e lo spazio della scrittura sono distinti da quelli della parola. La parola si enuncia e si ascolta in un tempo quasi istantaneo e in uno spazio condiviso limitato; la scrittura richiede il tempo di chi scrive e di chi legge, e lo spazio necessario a depositare la traccia. Questo doppio tempo consente di registrare tensioni sociali, debiti, obblighi e diritti, trasformando il conflitto immediato in contabilità simbolica. Ogni segno scritto diventa traccia verificabile e memoria condivisa, rinviando la tensione e rendendola trattabile.
Le prime tavolette mesopotamiche documentano quantità di beni, tributi e obblighi contrattuali, riducendo l’arbitrio e sostituendo la violenza immediata con il calcolo. I codici di legge antichi stabiliscono norme comuni, introducendo verificabilità e prevedibilità, mentre i trattati diplomatici attestano l’uso della scrittura per rinviare tensioni in forma negoziabile. La scrittura, dunque, agisce come dispositivo di differimento della violenza e come strumento di mediazione sociale.
Derrida definisce la scrittura come “trace”, capace di conservare la presenza del senso pur differendola nel tempo; Ong mostra il passaggio dall’oralità alla scrittura come rivoluzione cognitiva, favorendo pensiero analitico e classificazione; Platone, pur criticando la scrittura come sostituto del dialogo vivente, riconosce la sua funzione di conservazione della conoscenza e riduzione delle tensioni immediate. Goody e Havelock evidenziano come la scrittura strutturi la mente umana e permetta la costruzione di istituzioni complesse.
Nel contesto contemporaneo, la scrittura digitale estende ulteriormente queste funzioni. Memoria elettronica globale, database, blockchain e algoritmi di analisi permettono di documentare, prevedere e gestire conflitti su scale senza precedenti. La scrittura digitale introduce nuove dimensioni temporali: tempo reale, differito e predittivo, moltiplicando lo spazio simbolico e la capacità di gestione delle tensioni. Tuttavia, amplifica anche le responsabilità etiche e sociali: trasparenza, responsabilità e tutela dei diritti individuali diventano essenziali per garantire che la contabilità del conflitto non si trasformi in conflitto strutturale.
In sintesi, la scrittura mantiene un principio costante: trasformare il conflitto immediato della parola in traccia contabilizzabile, verificabile e differibile. Dalla contabilità dei beni nella Mesopotamia antica alla gestione digitale dei dati odierni, essa permette all’essere umano di mediare tensioni, conservare memoria, regolare relazioni e prevedere conseguenze. Scrivere diventa un atto di mediazione culturale e sociale: sospende, contabilizza e gestisce conflitti, trasformando lo spazio e il tempo in strumenti di ordine e negoziazione. La scrittura, così, non è solo tecnica o invenzione culturale: è un dispositivo di pace simbolica, capace di rendere trattabile ciò che altrimenti esploderebbe nell’immediatezza della parola.
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