**La metà della popolazione come risorsa strategica per superare l’impoverimento della modernità**
Il nostro sistema culturale porta inscritto un paradosso storico: chi chiamiamo “padre” quando crea cultura, la madre — colei che genera le persone che faranno cultura — resta confinata al biologico. Non è un dettaglio linguistico: è il segno di una struttura sociale che, per millenni, ha escluso la metà della popolazione dai centri decisionali e dalla costruzione del sapere.
Oggi osserviamo dinamiche paradossali. Settori tradizionalmente maschili, come le banche o le tecnologie, si femminilizzano proprio nel momento in cui perdono reale autonomia decisionale, delegando gran parte del potere agli algoritmi. Non si tratta di progresso. Si tratta di spazi vuoti che vengono occupati da chi resta ai margini, senza che il sistema centrale ne percepisca l’intelligenza intrinseca.
Eppure questa marginalizzazione ha prodotto un effetto inatteso e strategicamente rilevante: lo sviluppo di competenze cognitive alternative. Chi resta ai margini impara a vedere ciò che il sistema dominante non vede. Non parlo di “cura” nel senso limitante di assistenza o empatia superficiale: parlo della capacità di far vivere, di cogliere potenzialità dove altri vedono solo dati, di integrare complessità che la razionalità tecnica tende a frammentare.
Queste competenze non sono astratte. Le vediamo nelle comunità scientifiche, nei laboratori creativi, nei progetti sociali. Le donne hanno spesso guidato processi di innovazione dove l’approccio convenzionale falliva. Hanno imparato a operare in contesti complessi, a connettere punti apparentemente distanti, a leggere segnali deboli che i sistemi tradizionali ignorano. Questo è un tipo di intelligenza complementare, non subordinata: un modo diverso di comprendere e trasformare la realtà.
Oggi, in un mondo dominato dall’efficientismo algoritmico, dove le decisioni sono calcolate e standardizzate, questo sguardo periferico rappresenta l’unica massa critica numericamente sufficiente per una trasformazione sistemica. Non si tratta di “dare potere alle donne” come gesto simbolico, ma di riconoscere e integrare forme di intelligenza forgiate dall’esclusione, e renderle centrali per progettare un futuro sostenibile e ricco di possibilità.
La vera ricchezza risiede nella capacità di riconoscere l’esistenza di approcci diversi, senza drammatizzazioni ideologiche, ma con realismo strategico. Accettare che il sapere non sia monopolio di chi ha storicamente occupato i centri decisionali significa accedere a prospettive più ampie, più resilienti e più innovative.
In sintesi: se vogliamo superare l’impoverimento della modernità, se vogliamo costruire sistemi più efficaci, inclusivi e capaci di gestire complessità, dobbiamo imparare a valorizzare la metà della popolazione che il sistema storico ha escluso. Non come gesto di compensazione, ma come strategia pragmatica: perché l’intelligenza complementare non è una risorsa secondaria, è la chiave per una trasformazione reale.
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