Il residuo non quantificabile, quell’area indomita che sfugge al pensiero binario, è stato al centro di riflessioni fin dall’antichità. Nel pensiero classico, Platone già distingue l’anima come qualcosa di immateriale, non riducibile al corpo o alla semplice materia. Nel Medioevo, la questione dell’anima si intreccia con la teologia, mentre con l’avvento della modernità, il cartesiano “res cogitans” separa mente e corpo, ponendo l’anima sul piano del pensiero come sostanza distinta.
Nel Novecento, la scienza si avvicina a queste tematiche con cautela. La psicologia analitica di Jung parla di “inconscio collettivo”, una parte nascosta della mente che sfugge al controllo cosciente e raccoglie archetipi universali. Nelle neuroscienze contemporanee, la coscienza e la soggettività risultano fenomeni emergenti difficili da ridurre a processi puramente neurobiologici, suggerendo che una parte dell’esperienza umana si colloca fuori dalla piena osservabilità.
Epistemologicamente, teorie come quelle di Simondon o di Maturana e Varela riconoscono che la conoscenza si sviluppa in un contesto complesso, fatto di interazioni e retroazioni, dove ciò che sfugge alla classificazione binaria diventa essenziale per comprendere la realtà vivente.
Insomma, quel “residuo” non è solo un vuoto o una lacuna, ma una frontiera della conoscenza, il terreno dove si gioca la definizione stessa di ciò che chiamiamo “anima”, “coscienza”, o più semplicemente, “essere”.
In questo senso, la filosofia contemporanea ha cercato di superare la dicotomia cartesiana tra res cogitans e res extensa, esplorando modelli che includono l’interazione dinamica tra mente, corpo e ambiente. Ad esempio, l’approccio della “mente estesa” sostiene che i processi cognitivi non si limitano al cervello, ma si estendono agli strumenti, agli oggetti e alle relazioni sociali che circondano l’individuo.
Parallelamente, in ambito neuroscientifico, si è aperto un dibattito sull’emergenza della coscienza come fenomeno che non si riduce alla somma di componenti neuronali. Le teorie della complessità e della dinamica non lineare descrivono il cervello come un sistema caotico e auto-organizzato, in cui l’“anima” potrebbe essere vista come un effetto emergente, non localizzato, che resiste a una definizione univoca e a una completa osservazione.
Questa prospettiva sposta l’attenzione dalla ricerca di un’essenza fissa a un processo in divenire, in cui la soggettività e la consapevolezza si manifestano come eventi temporanei e relazionali, soggetti a continua trasformazione.
In definitiva, l’“anima” potrebbe non essere un’entità statica o una semplice sostanza, ma un campo dinamico di interazioni e potenzialità, riflesso di quell’area selvaggia e non governata che sfugge alle griglie del pensiero binario, e che continua a sfidare la nostra comprensione.
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